Sciopero generale del 2/12 e manifestazione del 3/12 a Roma: un piccolo e claudicante passo avanti

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Per il 2 dicembre ultimo scorso tutto il sindacalismo di base sembrava aver messo da parte le solite divisioni proclamando uno sciopero generale nazionale con una lunga –forse troppo lunga– lista di rivendicazioni, con in primo piano i salari.

Una convergenza positiva, indotta probabilmente da una certa pressione dei lavoratori iscritti a tali organizzazioni, ma forse ancor più dalla necessità di unire le poche forze disponibili di fronte ad attacchi repressivi sempre più frequenti da parte dello stato ed al restringersi degli spazi di agibilità sindacale nei posti di lavoro.

Il bilancio della giornata di mobilitazione, che ha visto una buona partecipazione –pur al di sotto delle speranze– nei trasporti e della logistica, è di un piccolo passo avanti.

Il giorno successivo le stesse forze, con il sostegno di innumerevoli sigle politiche, si davano appuntamento a Roma per una manifestazione nazionale, più marcatamente politica, contro la guerra in Ucraina e a favore delle condizioni di vita dei lavoratori, dei precari e dei disoccupati, con posizioni peraltro assai generiche (certo per riuscire a tenere insieme tutti i firmatari, tra cui anche forze di sinistra “istituzionale”).

La manifestazione non ha confermato però le speranze di quanti avevano lavorato per l’unità dei lavoratori: il corteo si è da subito scisso in due tronconi, uno egemonizzato dal SICOBAS e l’altro dall’ USB, i due maggiori e più influenti sindacati di base, il primo nel settore della logistica, il secondo nel pubblico impiego e nei trasporti. Ciò ha lasciato in parecchi compagni un senso di frustrazione.

Un sentimento assolutamente comprensibile e anche giusto date le divisioni strumentali (e funzionali più all’autoconservazione di piccole burocrazie che alla lotta di classe) cui il più delle volte il sindacalismo di base, e specialmente le sue dirigenze, ci hanno abituati.

Le ragioni di queste pratiche, e di altre talvolta non solo discutibili ma opposte ad un autentico tradunionismo classista, sono talmente complesse da non poter essere neanche sfiorate in una breve nota come questa. Su di esse sarà assolutamente opportuno tornare estesamente e lungamente.

Ci limitiamo ora a dire che a nostro avviso sarebbe assai temerario ritenere di individuare in questa o quella sigla il futuro o, peggio, addirittura l’attuale sindacato di classe. Una vera ripresa su scala importante della lotta proletaria è ancora di là da venire. E sarà un processo che potrebbe ben vedere la scomparsa non solo delle attuali dirigenze dei sindacati “combattivi”, bensì delle organizzazioni stesse.

Pertanto non è possibile oggi ipotizzare se e come una delle sigle del cosiddetto sindacalismo conflittuale rappresenti l’embrione di una larga organizzazione economica di classe futura, né che dallo sviluppo e dalla unione del sindacalismo di base ciò possa darsi. Ben altri frangenti storici e ben più ampie e persistenti lotte sociali potranno far da levatrici a tanto.

Non ci siamo ancora e pertanto non vi è alcuna necessità per i comunisti di schierarsi con l’uno o con l’altro dei sindacati “conflittuali”. Sarebbe anzi questo un errore, che ostacolerebbe anziché favorire quell’unione dei proletari nella lotta che i rivoluzionari devono propugnare.

Però all’interno di questi organismi, in quanto organizzano proletari, bisogna lavorare. Come anche, per lo stesso motivo, nei sindacati “consociativi”. La scelta non sarà basata tanto però sull’ideologia e le posizioni politiche prevalenti nei vertici, ma sulla presenza di proletari combattivi, e di lotte reali.

È vero che le posizioni politiche delle dirigenze dei sindacati “conflittuali” sono divergenti, e possono apparire oggi più vicine o lontane da quelle dell’internazionalismo comunista, ma il vero problema è che in tutti i casi tali posizioni –rendendo questi organismi degli ibridi sindacal-politici– sono più una remora che uno stimolo ad uno schieramento unitario sul terreno della lotta economica, la quale deve coinvolgere il maggior numero di proletari possibile sulla base delle proprie condizioni immediate, senza discrimine di opinioni religiose, culturali o politiche.

Con tutto ciò la situazione è questa, ci piaccia o no: decenni di assenza di una genuina avanguardia rivoluzionaria influente fanno sì che i proletari più combattivi si pongano di fronte ai problemi rivendicativi e politici (che ovviamente sono strettamente legati tra loro) in modo indifferenziato, producendo –al posto del giusto collegamento– una confusa commistione tra i due piani. Una fase che non si può certo saltare con i sermoni o la buona volontà, e che è destinata a perdurare.

Ed arriviamo così alla manifestazione del 3 dicembre: trattandosi di una iniziativa molto più politica che sindacale, era inevitabile che le divisioni, non solo tra i diversi sindacati di base, ma fra tutte le sigle aderenti, emergessero. E se ciò è pernicioso a livello sindacale e rivendicativo, non per questo lo è necessariamente da quello politico, dove la divisione, ove aiuti a fare emergere posizioni più coerenti, è assai meglio della confusione.

Non che il distinguersi di uno “spezzone internazionalista”, che c’è stato, ma inquadrato nel corteo del SICOBAS, abbia annullato la confusione tra sintesi politica e mobilitazione sindacale, dalla quale altre contraddizioni si alimentano. Ma nella situazione attuale forse non poteva avvenire altrimenti. Si verificherà quando e se una lotta di classe evoluta vedrà cristallizzarsi un forte organismo politico d’avanguardia ben distinto dall’organizzazione economica del proletariato e da essa del tutto autonomo. Cosa di cui oggi si sente la mancanza. Ma almeno una piccola presa di posizione coerente contro la guerra c’è stata.

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